Per me “fabbrica” vuol dire “Bertone”.

Oggi suona strano leggere una frase del genere: se si passa davanti alla carrozzeria grugliaschese si possono notare solo i cancelli chiusi e il cortile d’ingresso deserto. Eppure ogni qualvolta sento la parola “fabbrica” a me viene in mente sempre la Bertone.

Sono cresciuto in una famiglia di – ora ex – operai Bertone: mio zio ma, soprattutto, mio padre. Di per sé potrebbe sembrare una cosa poco importante, invece ha segnato fin da subito la mia esistenza. Se sono cresciuto a Grugliasco, lo devo proprio a questo fatto. La scelta della casa da parte dei miei genitori è stata dovuta proprio alla presenza nelle vicinanze della Bertone, cosa che tra l’altro ha influenzato parecchi abitanti dello stesso quartiere, sito in via Perotti.

Uno dei miei primi ricordi di un lontano Natale è legato all’orsetto che ha accompagnato la mia infanzia: un peluche rosa (che ancora conservo), dono della fabbrica ai figli dei suoi operai.

Con il passare degli anni ho visto la fabbrica crescere ed eccellere: ancora ricordo la prima volta che vidi la ZER o quella volta che, sempre da bimbo, mi fecero sedere al volante di un non so quale prototipo da non so quanti miliardi di lire, al Salone dell’Auto di Torino; per poi cadere in picchiata dopo la morte di Nuccio, il suo proprietario, complice anche piani di investimento sbagliati. Ho visto mio padre piangere alla chiusura dell’azienda e come lui molti suoi colleghi, che si sono dimostrati più attaccati al marchio e alla fabbrica degli stessi proprietari.

Ora la Bertone non è più tale: è stata venduta alla FIAT e i suoi dipendenti sono dislocati (le rare volte che non sono in cassaintegrazione) nei magazzini o negli altri stabilimenti, sparsi in tutta Italia, della casa torinese.

Magari, inconsciamente, alla Bertone devo anche la mia formazione intellettuale: figlio di un operaio da sempre tesserato FIOM, sono cresciuto con quei valori che mi hanno reso l’uomo di sinistra quale sono. Ora quegli stessi valori e gli obiettivi che avevano raggiunto mio padre – e i suoi colleghi prima di lui – stanno venendo meno in un mondo del lavoro sempre più precario e mi trovo costretto a lottare, a mia volta, per cose che dovrebbero essermi garantite dalla costituzione. Comunque io non demordo, intanto sorrido ogni volta che sento qualcuno dirmi: “Lavoro in fabbrica”, poiché ovunque lui vada io me lo immagino a timbrare il cartellino in corso Allamano.

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